MEDITAZIONE SULLA NATIVITÀ

Presepe 1993 di Umberto Siboni
testo di Pietro Ortelli

(dal Giornale del Popolo di mercoledì 22 dicembre 1993)

La Natività che Umberto Siboni espone quest'anno in Cattedrale a Lugano durante il periodo natalizio colpisce a prima vista per la singolarità e l'originalità dell'impostazione.
Che poi tale caratteristica non sia il risultato di una ricerca fine a sé stessa, ma piuttosto l'esito in superficie di una meditazione profonda, o se vogliamo di una salda impalcatura teologica, non é certo l'ultimo dei suoi meriti.
L'impressione dell'insufficienza ,dell'inadeguatezza di un consumo sentimentale dell'Evento, ossia dell'avvenimento di Cristo, vissuta - non c'è dubbio - dall'autore in prima persona, si comunica direttamente allo spettatore, per poco che questi presti attenzione ai "segni", alle cifre inabituali e sorprendenti di cui il lavoro è ricco, veri e propri cartelli indicatori per un percorso meditativo non scontato, non molle, ma drammatico.
Se infatti, oggigiorno, il presepio - parlando in termini generali - ha un limite, è proprio quello di confermare e incoraggiare, piuttosto che non di contestare, la diffusa riduzione del Natale a una iconografia fiabesca priva di mordente e di autentica religiosità. Non può non essere così in una civiltà che, non essendo più cristiana, è incapace di una memoria "vera" dell'Avvenimento. Il presepio tradizionale assume infatti tutto il suo valore di "segno", di contributo alla memoria, soltanto all'interno di una tradizione viva.
È possibile capire il Natale al di fuori di questa tradizione? O di un serio confronto con essa? No, ci dice Siboni con il suo lavoro, non è possibile.
Ed ecco allora davanti a noi una Natività nella quale, incastonati in una solida architettura romanica, si sincronizzano avvenimenti e tempi diversi, in una sinossi tesa e drammatica - malgrado l'equilibrio e la compostezza formale. L'opera, realizzata in terracotta, si presenta coma una sorta di timpano romanico, diviso in una parte superiore, semicircolare, che alloggia la Natività vera e propria, e una parte inferiore, un portico con sette archi in ognuno dei quali compare una persona. Nel vano centrale - primo anacronismo, prima sorpresa - la figura di Lazzaro: l'amico che Cristo aveva risuscitato, pochi giorni prima della sua ultima entrata a Gerusalemme (Gv 11,38-46).
Nei vani a destra e a sinistra - secondo anacronismo, seconda sorpresa - personaggi della Chiesa primitiva che si radunano sotto il portico di Salomone (At 5,12).
Lazzaro, la più immediata, la meno calcolata delle figure, quella modellata - si direbbe - più rapidamente nella creta, è sorpreso nella vertigine infinita dell'istante in cui torna nella vita, torna nel tempo. Seduto tra i calcagni, alza gli occhi, come abbacinati e stupefatti, verso la Presenza che lo ha tratto dai morti. Ma Cristo non c'è. Se ci fosse si troverebbe pressappoco nella posizione in cui si trova chi osserva il "presepio".
Ossia non c'è: c'è, ma ha la forma di un bambino in braccio a una donna. Egi si trova al centro del vano superiore, esattamente al di sopra di Lazzaro: quel bambino venuto nel mondo avrà il potere di resuscitare dai morti un uomo, ma morirà egli stesso pochi giorni dopo sul Golgota. Perché? Perché mai il liberatore che i profeti avevano annunciato - Il Cristo di cui il Natale celebra la nascita - dovrà subire il supplizio della croce?
Perché, ci dice Siboni, e con lui la tradizione cristiana, l'uomo potesse essere liberato dall'ombra della morte e dalla tristezza del suo peccato, e perché potesse nascere una familiarità nuova tra l'uomo e Dio, e una compagnia nuova tra gli uomini: quella appunto di chi si radunava sotto il portico di Salomone, a Gerusalemme. Quella di quanti nei secoli hanno continuato a riunirsi nel suo Nome. Il volto di quel bambino - venuto perché gli uomini, come Lazzaro, abbiano la vita - è visibile nella compagnia di uomini che ne prolungano l'Avvenimento dentro la storia: la Chiesa. Lo stupore di Lazzaro è allora il nostro. Oppure non abbiamo coscienza di quanto è accaduto.
Questa è la Buona Novella, evidentemente scandalosa quanto lo è, a pensarci bene, quella di un Dio che si fa uomo. In quel bambino l'umano e il divino si toccano. Ma la meditazione di Siboni sembra suggerire che, in un periodo in cui si può anche peccare, oltre che per eccesso di "materialismo", anche per eccesso di "spiritualismo", è fondamentale non dimenticare la concretezza dell'umano: non dimenticare cioè che Cristo è venuto per uomini in carne ed ossa. Non bisogna essere diversi, ritirarsi dalla vita, per accogliere quella Presenza. Una Presenza divina così umana da piangere la morte di un amico.
E tutto ricorda lo spessore umano e terreno, in questo lavoro. Dall'architettura, saldamente poggiata a terra, al robusto angelo ben fermo sui suoi piedi. Viene in mente Sinjavskij (Pensieri improvvisi):"È giunta l'ora di rinunciare agli angioletti inghirlandati, perché diventino angeli più forti e più evidenti degli areoplani. "Areoplani" non già per scimmiottare il mondo contemporaneo, bensì per superarlo".
Umani sono gli sguardi ( lo sguardo di Giuseppe, lo sguardo dell'angelo). Però "stranamente" Maria non guarda il bambino. Guarda lontano e nel suo sguardo c'è forse già il peso della profezia che Simeone - il vecchio Simeone - pronuncerà otto giorni dopo nel tempio (" una spada passerà il tuo cuore, anche il tuo cuore").   

                  Pietro Ortelli